La presa di Roma

Una delle tracce possibili per questa maturità 2020 sembra essere “La presa di Roma“, con ovviamente cause e conseguenze.
Ma perché si tratta di una delle possibili tracce per lo scritto di italiano? Beh, sappiamo tutti quanto il MIUR ci tenga alle ricorrenze e quest anno ricadono i 150 anni dall’evento, che sicuramente aprì una nuova pagina per la storia del Paese e del papato.
In questo articolo andrò a raccontarvi non solo della ben nota breccia di Porta Pia, che tutti conosciamo (o almeno, dovremmo conoscere), ma anche di come si sia giunti ad uno scontro armato con la Chiesa e quali furono le conseguenze (e badate bene, i danni non vennero arrecati solo al pontefice).
Ma partiamo con ordine: individuiamo subito il contesto storico.
Il contesto storico
Quando avvengono i fatti di cui parliamo?
La prima cosa (dopo una buona introduzione, ovviamente) che dovremmo andare a fare quando iniziamo un tema di questo tipo, è sicuramente individuare un contesto storico, collocare quindi, nella linea del tempo, l’evento di cui si parla.
Nel caso della presa di Roma siamo nel 1870, in un periodo storico noto come Risorgimento italiano.
Il Risorgimento è per il nostro Paese un momento cardine, un punto di svolta che permetterà di passare dall’essere un insieme di stati più e meno grandi all’essere una nazione unita.
Per avere un’idea chiara del contesto pre risorgimentale, potete. dare un’occhiata alla mappa qui sotto:

Fonte: Wikipedia
Con gli eventi dei moti carbonai e della prima e seconda guerra d’indipendenza si giunse, il 17 marzo 1861, alla proclamazione del Regno d’Italia, con Vittorio Emanuele II non re degli italiani ma «re d’Italia, per grazia di Dio e volontà della nazione».
L’unificazione però non era ancora completa: Veneto, Trentino, Friuli e Venezia Giulia erano ancora sotto dominio austriaco, mentre Roma (nominata idealmente. capitale del regno) era parte dello stato pontificio.
La terza guerra di indipendenza
L’alleanza con la Prussia e un passo avanti nell’unificazione
Un ulteriore passo avanti nell’unificazione della penisola si ebbe quando, il 16 giugno 1866, la Prussia iniziò le ostilità contro alcuni principati tedeschi vicini alla corona austriaca.
L’esercito italiano entrò in guerra al fianco della Prussia (nel rispetto di precedenti alleanze) con due armate guidate dai generali La Marmora e Cialdini.
Nonostante la sconfitta a Custoza il 24 giugno, il neonato Regno d’Italia riuscì ad assicurarsi numerose vittorie sul campo: ahimè queste non vengono facilmente ricordate, si preferisce oscurarle per dar spazio a sconfitte come quella di Lissa (20 luglio).
Le vittorie prussiane permisero di giungere alla firma di un armistizio (Armistizio di Cormons) il 12 agosto 1866.
Come da trattato, l’Italia ottenne Mantova e diversi territori della terraferma veneta. Rimanevano in mano austriaca il Trentino, il Friuli orientale, la Venezia Giulia e la Dalmazia. Le città di Trento e Trieste continuavano a essere sotto il governo di Vienna.
Oltre ai territori, l’Italia ottenne di poter rimpatriare le salme di alcuni patrioti italiani, tra quali i fratelli Bandiera e Domenico Moro.
La presa di Roma
L’annessione della nuova capitale del regno
Il 15 luglio 1870 la Francia dichiarò guerra alla Prussia: l’Italia non intervenne, attendendo gli sviluppi della vicenda.
Dopo qualche mese, il 4 settembre 1870, il Secondo Impero francese cadde, lasciando spazio alla Terza Repubblica. L’Italia, non essendosi schierata nel conflitto franco-prussiano e quindi non avendo vincoli né con i vincitori né con i vinti, approfittò della debolezza francese nella penisola per completare l’unificazione.
Già il 10 agosto, il generale Cadorna venne convocato dal ministro della guerra Govone per assumere il comando del Corpo d’osservazione dell’Italia centrale.
I suoi ordini furono:
- Mantenere inviolata la frontiera degli stati pontifici da qualunque tentativo d’irruzione di bande armate che tentassero di penetrarvi;
- Mantenere l’ordine e reprimere ogni moto insurrezionale che fosse per manifestarsi nelle provincie occupate dalle divisioni poste sotto a’ di Lei ordini;
- Nel caso in cui moti insurrezionali avessero luogo negli stati pontifici, impedire che si estendano al di qua del confine.
Alla fine di agosto divisioni furono portate a cinque. Il totale degli effettivi del Corpo arrivò a superare le 50.000 unità.
L’8 settembre partì da Firenze (che intanto era diventata capitale del Regno) per consegnare al papa una lettera autografa di Vittorio Emanuele II.
Nell’epistola il re si rivolgeva al pontefice:
«con affetto di figlio, con fede di cattolico, con lealtà di Re, con animo d’italiano»
esprimendo
«l’indeclinabile necessità per la sicurezza dell’Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia del confine, debbano inoltrarsi per occupare le posizioni indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell’ordine»
Il pontefice rigettò le richieste del re e l’11 settembre l’inviato del re ritornò nella capitale.
Nello stesso giorno cominciarono le operazioni militari.
La breccia a Porta Pia
L’evento più famoso della presa di Roma
Il regio esercito si schierò e mantenne la posizione sino al 20 settembre.
Il cannoneggiamento delle mura iniziò alle 5:00 e l’attacco fu portato su diversi punti della città.
CURIOSITA’
Pio IX aveva minacciato di scomunicare chiunque avesse comandato di aprire il fuoco sulla città.
La minaccia non sarebbe stata un valido deterrente per l’attacco, comunque l’ordine di cannoneggiamento non giunse da Cadorna bensì dal capitano d’artiglieria Giacomo Segre, giovane ebreo comandante della 5ª batteria del IX° Reggimento, che dunque non sarebbe incorso in alcuna scomunica.
Poco dopo le ore 9 iniziò ad aprirsi una vasta breccia a una cinquantina di metri alla sinistra di Porta Pia.
Una pattuglia di bersaglieri fu inviata sul posto a constatarne lo stato.
I comandanti d’artiglieria ordinarono di concentrare gli sforzi proprio in quel punto (erano le 9:35).
Dopo dieci minuti d’intenso fuoco, la breccia era abbastanza vasta: Cadorna ordinò immediatamente la formazione di due unità di assalto per penetrare nel varco: furono mobilitati un battaglione di fanteria, uno di bersaglieri e alcuni carabinieri.
L’assalto non fu necessario: verso le ore dieci, dal campo pontificio fu esposta la bandiera bianca.
Mentre la resistenza cessava a Porta Pia, la bandiera bianca fu issata lungo tutta la linea delle mura.

[…] La porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra; di materasse fumanti, di berretti di Zuavi, d’armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti. […]
Edmondo de Amicis, scrittore e giornalista, ufficiale dell’esercito ai tempi della presa di Roma.
Tratto da “Le tre capitali“.
Le conseguenze
Non fu solo il papato a perdere…
Il 21 settembre il generale Cadorna prese possesso della città.
Dal suo Quartier generale ordinò che Roma, ad eccezione della Città Leonina, fosse evacuata dall’esercito pontificio e occupata dagli italiani.
Le truppe pontificie avrebbero ricevuto l’onore delle armi ed i volontari sarebbero tornati alle proprie case. Al tramonto tutta Roma, ad eccezione della Città Leonina, era stata occupata dagli italiani.
Il 27 settembre l’esercito italiano prese possesso anche di Castel Sant’Angelo e, da quel momento, i possedimenti del Papa furono limitati al Vaticano.
Pio IX decise di non riconoscere la sovranità italiana su Roma: il parlamento italiano, per cercare di risolvere la questione, promulgò nel 1871 la Legge delle Guarentigie.
Il Papa non accettò la soluzione unilaterale di riappacificazione proposta dal governo e non mutò il suo atteggiamento: questa situazione, indicata come “Questione Romana“, perdurò fino ai Patti Lateranensi del 1929.
Il primo francobollo a portare per il mondo la notizia dell’unificazione della nazione fu il Vittorio Riquadrato, di cui è giunto perfettamente conservato un esemplare su lettera timbrata proprio il 20 settembre 1870 a Roma.

Fonte: ibolli.it
La reazione di Pio IX
L’enciclica e i danni alla vita politica italiana
Pio IX si dichiarò «prigioniero politico del Governo italiano».
Nel 1874 Pio IX emanò l’enciclica Non expedit, con cui vietò ai cattolici italiani la partecipazione alla vita politica.
Soltanto in età giolittiana tale divieto sarebbe stato eliminato progressivamente, fino al completo rientro dei cattolici “come elettori e come eletti” nella vita politica italiana: solo nel 1919, con la fondazione del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo, i cattolici furono presenti nel mondo politico italiano ufficialmente.
Il contenzioso tra Stato italiano e Santa Sede trovò una soluzione nel 1929, durante il governo Mussolini, con i Patti Lateranensi, mediante i quali si giunse ad una effettiva composizione bilaterale della vicenda.
Fonti
Articolo scritto da Nicola Deidda e Bepi Destin per abraccettoconlastoria.com.

Appassionato di storia e informatica.
Fondatore del progetto “A braccetto con la Storia”.