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La lotta alla mafia

A Braccetto con la Storia

La lotta alla mafia

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A 80 anni dalla sua nascita, parliamo di Paolo Borsellino e della lotta alla mafia di cui è emblema.

Come tutti i fenomeni storici, anche la mafia ha un inizio e una fine

Giovanni Falcone

Due vite incrociate

Paolo Borsellino e Giovanni Falcone

Quando si parla di mafia, non si può non pensare a tutti quegli uomini che, per la loro audacia e per la loro forza morale, hanno combattuto il fenomeno della mafia e che hanno segnarono con la loro vita la storia nazionale.

A titolo esemplificativo ma non esaustivo: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Un magistrato e un giudice, entrambi palermitani, che diedero la propria vita per cercare di arginare questo fenomeno illegale.

Le vite di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino risultano intrecciate fin dall’inizio: nacquero a Palermo a distanza di 8 mesi uno dall’altro.

Entrambi crebbero nella Kalsa, l’antico quartiere di arabi di Palermo, abitato da professori, commercianti ed esponenti della media borghesia.

Giovanni Borsellino, figlio di farmacisti, crebbe in un l’ambiente intellettualmente vivace ed amava discutere di libri e di filosofia con gli amici.

A scuola Paolo non sbagliava un colpo.

Era uno studente modello: in greco aveva 10, si alzava alle 5 del mattino per studiare e la sua memoria prodigiosa faceva il resto.

Dopo il Liceo, Paolo Borsellino si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza, ma mentre frequentava l’università gli morì il padre, e le condizioni economiche della sua famiglia peggiorarono. Nonostante le difficoltà, a 22 anni si laureò con 110 e lode ricevendo i complimenti della commissione d’esame.

Iniziò la carriera in Magistratura in Sicilia: prima Enna come uditore, poi a Monreale dove lavorò fianco a fianco con il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, ucciso dalla mafia nel 1980.

Nel frattempo, la situazione a Palermo era in rapido cambiamento.

La guerra di mafia

Numeri da guerra civile nell’Italia del 1980

Era cominciata una guerra di mafia, che tra gli ultimi mesi del 1981 e i primi del 1982 causò nel capoluogo siciliano un morto ogni tre giorni.

Alla fine le vittime furono circa 1.200, una cifra da guerra civile e si scoprì, infatti, che dietro gli omicidi c’erano i “viddani” di Corleone, circa settanta persone provenienti dal paese vicino a Palermo. E Riina era il loro capo.

La “guerra” finì nel 1983.

Per rispondere alla violenza mafiosa, il governo inviò in Sicilia come prefetto antimafia il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, protagonista della lotta al terrorismo delle Brigate rosse.

Per Cosa Nostra era una minaccia seria.

Inizia la lotta alla mafia

Carlo Alberto della Chiesa, Paolo Borsellino e tanti altri.

Così, il 3 settembre, anche Dalla Chiesa fu freddato a Palermo con la moglie.

L’omicidio del generale Dalla Chiesa fu solo una tappa della strategia di Totò Riina, che voleva lo scontro frontale con lo Stato.

Successivamente un’autobomba uccise Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione di Palermo.

Per sostituirlo, il Consiglio superiore della magistratura scelse una persona nota la sua serietà professionale: Antonino Caponnetto, che lasciò la famiglia a Firenze per sottoporsi a una vita da recluso tra la caserma della Guardia di Finanza e il suo ufficio.

Caponnetto si rese conto della necessità di costituire un pool di magistrati per frazionare i rischi dei singoli e avere una visione unitaria del fenomeno mafioso.

Il primo a essere scelto fu proprio Falcone. Poi arrivarono Giuseppe Di Lello Finuoli, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta.

Il pool iniziò a lavorare a gran ritmo, mentre sulla scena stava arrivando la stagione dei pentiti.

A partire da Tommaso Buscetta, “don Masino”, che nella guerra scatenata da Totò Riina aveva perso diversi parenti.

Trafficante di droga, riparò in Brasile dove fu arrestato e poi estradato in Italia.

Iniziò a collaborare. Risultato: vennero spiccati quasi 400 mandati di arresto ed una percezione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno mafioso.

Ma Totò Riina stava preparando nell’ombra un’estate di sangue.

Prima fu ucciso Beppe Montana, capo della Sezione latitanti della polizia di Palermo, e pochi giorni più tardi Ninni Cassarà, vicedirigente della squadra mobile.

Così Paolo Borsellino e Giovanni Falcone furono trasferiti in fretta e furia all’Asinara, per concludere l’istruttoria del Maxiprocesso con ben 475 imputati e 360 condanne, il più grande attacco alla mafia mai realizzato in Italia.

In seguito Paolo Borsellino fu nominato procuratore della repubblica a Marsala, Caponnetto ritenne chiusa la sua esperienza palermitana.

Un clima sfavorevole

Il futuro di Falcone e Borsellino

Era ragionevolmente sicuro che il suo posto sarebbe stato preso da Falcone. Ma così non fu.

Il clima politico era sfavorevole.

Alle elezioni di giugno il partito socialista aveva raddoppiato i suoi voti e il nuovo ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli, si era dichiarato contro il programma di protezione dei pentiti.

Mentre Falcone era sempre più isolato, Paolo Borsellino riuscì a tornare a Palermo come procuratore aggiunto e con un ruolo direttivo nelle indagini di mafia.

Totò Riina volle vendicarsi tanto per cominciare di chi non gli aveva garantito l’impunità.

Paolo Borsellino lavorò con frenetica intensità: sentì pentiti importanti, viaggiò in continuazione – lui che aveva paura dell’aereo.

Dietro le quinte, intanto, circolava un “papello”, un documento nel quale Totò Riina avanzava 12 richieste allo Stato.

Si andava dalla revisione della sentenza del Maxiprocesso all’annullamento del 41 bis (l’articolo di legge sul carcere duro per i mafiosi) fino alla riforma della legge sui pentiti.

Borsellino fu avvisato della trattativa da Liliana Ferraro, che aveva sostituito Falcone alla Direzione affari penali del ministero, e sicuramente lui si oppose, firmando per sé una condanna a morte.

Il 23 maggio 1992: allo svincolo di Capaci, sull’autostrada da Punta Raisi a Palermo, 500 kg di tritolo uccidono Giovanni Falcone, la moglie e 3 agenti della sua scorta.

La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una “premura incredibile”.

Perché Totò Riina aveva detto: “Bisogna scavalcare un muro”.

E quel muro era Paolo Borsellino.

Il 19 luglio faceva molto caldo a Palermo. Il magistrato decise di andare a trovare la madre in via D’Amelio. Due minuti prima delle 17:00, l’esplosione dell’autobomba che uccise lui e 5 uomini della scorta si sentì in tutta Palermo.

Seguono giorni convulsi.

La famiglia Borsellino, in polemica con le autorità, non accetta i funerali di Stato.

Non vuole la rituale parata dei politici e alle esequie degli agenti di scorta una dura contestazione accoglie i vertici istituzionali.

È tutto finito” fu il commento di Antonino Caponnetto.

Ma lo stesso Caponnetto, negli ultimi anni della sua vita, girò l’Italia per raccontare nelle scuole la storia dei due eroi, affermando: “Le battaglie in cui si crede non sono mai battaglie perse”.

La lotta alla mafia, oggi

Dall’arresto di Totò Riina agli ideali antimafia moderni

Oggi Totò Riina è in carcere, mentre Bernardo Provenzano è morto mentre scontava l’ergastolo in regime di 41 bis (il carcere duro).

I corleonesi sono stati disarticolati.

Ma la lotta alla mafia è ancora lunga. La nebbia in Sicilia, insomma, è ancora fitta.

Non c’è niente di più commovente di un’ideale che rimane, che continua ad aleggiare sopra le teste degli uomini e che li spinge ad agire in un certo modo.

Non c’è niente di più commovente di un ideale per cui si è combattuto una vita intera, di un ideale per cui, addirittura, si è smesso di vivere.

La lealtà con cui l’uomo si dedica a un’idea, la forza e la dedizione con cui la protegge: sono queste le cose che contano e che rendono grande quella persona, la innalzano a idolo, quasi, la sollevano oltre le cose umane e la portano di là, in quel luogo che raccoglie gli uomini che hanno fatto cose grandi, che hanno dedicato la loro vita a quello, che si sono sacrificati e offerti per una causa superiore.

È facile rimanere nel proprio cantuccio, nel proprio angolo di vita da cui l’esistenza degli altri si guarda appena; ci si affaccia un poco solo per constatare che, in effetti, appartati e protetti si vive bene.

È semplice stare a guardare, in modo passivo e riparato, stare a guardare la nostra vita che scorre in silenzio mentre quella di qualcuno scorre a voce alta e cambia il mondo.

Ma gli uomini passano e le idee restano. Diceva Ezra Pound:

Se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lui

Ezra Pound

Le idee che rimangono sono quelle degli uomini che hanno lottato per esse, sono quelle degli uomini che hanno messo l’ideale davanti alla vita, il futuro degli altri davanti al proprio.

Giovanni Falcone diceva che “La mafia non è affatto invincibile” e, ancora “è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”.

Ma i grandi uomini e le grandi idee, da soli, non vanno da nessuna parte.

Il mondo non lo può cambiare un uomo solo. Un uomo solo può diffondere un ideale, può convincere e trascinare, può far aprire gli occhi, ma poi sono le persone, tutte insieme, che possono concretamente stravolgere le cose.

La mafia è un modo di pensare, è un modo di agire e di sottomettersi.

La cultura mafiosa ha messo radici, ma le radici possono essere sradicate. Un albero può essere abbattuto, ma un uomo, da solo, non ci riesce.

Le idee che rimangono, quindi, devono servire a questo, a indicare la via e gli strumenti da utilizzare per stravolgere le cose e abbattere definitivamente ciò che non deve più esistere.

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