L’estetica musicale

Che cos’è la musica? Molti si sono chiesti cosa possa essere definito musica, sopratutto se pensiamo che tra i suoi esponenti rientrano personaggi che vanno da Bach a Gigi d’Alessio, il quesito capite bene, non è da poco. Da qui, infatti nasce l’altra domanda: che cos’è il Bello musicale? E che rapporto c’è tra il testo e la musica? Come può questa produrre un significato? Ma rallentiamo e procediamo per ordine. Ovviamente tutte queste domande se le sono poste i nostri eroi del passato, conosciuti col nome filosofi (ognuno ha l’eroe che si merita).
La riflessione musicale, nasce con i pitagorici, che sono i primi a riconoscere un rapporto tra la musica e la matematica, che crea armonia attraverso delle precise regole, che sono per loro le stesse attraverso cui si muovono i pianeti che, con il loro spostarsi genererebbero queste armonie musicali che sono difficilmente ascoltabili agli uomini poiché in esse nascono e l’abitudine le rende inefficaci alle nostre orecchie. Con Platone la musica ricopre inoltre un ruolo etico in quanto serve ad educare.
Fino al 1700 circa, la musica non è concepita come piacere o bellezza fini a sé stessi. Questa doveva avere un fine morale, educativo, metafisico, pedagogico e così via. Infatti in epoca medievale, occupa un ruolo importante nel rapporto con dio, da qui la nascita dei canti gregoriani (a tal propositivo vi rimando all’articolo di Miguel Montefusco) e della messa cantata che porterà ad interrogarsi su uno dei quesiti posti all’inizio, ovvero il rapporto tra il testo cantato e la melodia (tema già ripreso nel teatro greco).
S. Agostino è l’esponente più importante in questo campo, e la considera una operazione scientifica dell’anima, l’arte di porre un limite alla materia, di per sé illimitata, e così fissa le basi per il dialogo, in cui ‘numeri’, ritmi e misure sensibili si fanno rappresentazione di quell’armonia ordinata dell’universo, fondato sul pensiero di Dio. Nel De Musica, più che mani torna il motto agostiniano della fede e la ragione che vanno di pari passo.
Arriviamo a cavallo tra XVII e XVIII secolo dove Leibniz afferma che “La musica è una pratica occulta dell’aritmetica, dove l’anima non sa di calcolare”, abbandonano completamente l’idea che essa abbia un valore metafisico simbolico, e che pur esistendo una realtà matematica, questa venga assorbita inconsapevolmente da chi ascolta. Il teorico musicale non deve più portare in luce chissà quale verità nascosta, ma interrogarsi quindi sul fenomeno uditivo dell’ascoltatore. Per meglio dire, deve cercare di spiegare tutte quelle percezioni consce e inconsce dell’uditore, la ragione e l’immaginazione, il razionale e l’irrazionale, considerando anche il punto di vista di chi crea la melodia, cercando di riuscire a portare l’osservazione particolare nell’universale (compito poi tipico di tutto il ‘700 che cercherà di applicare tale principio a tutti i campi del sapere).
In questo periodo vediamo il nascere del concetto di Bello Estetico (per approfondire il concetto vi rimando agli articoli “Estetica par. 1” ed “Estetica par. 2”), ed è proprio qui che possiamo dire che cogliere il bello, può significare cogliere l’armonia in un piacere che porterà l’ascoltatore a sentire gli elementi dissonanti, unirsi per creare un accordo con gli elementi contrastanti del cosmo. Il compositore in questo senso assume il ruolo di Dio.
Con questa idea si arriverà all’800, il secolo che vede trionfare la filosofia musicale. Sarà Schopenhauer ad affermare che la musica, a differenza delle altri arti, potrebbe continuare ad esistere a prescindere dal mondo, in quanto essa non è l’immagine delle idee ma immagine della volontà stessa della quale anche le idee sono oggettività, esprimendo l’essenza delle cose. Il suo pensiero lo renderà il massimo esponente dell’estetica musicale, in quanto filosofo che più ha approfondito tale aspetto.
Facciamo un balzo in avanti e arriviamo al XX secolo, il periodo che ha accelerato tutti i processi di cambiamento, anche in campo musicale. La sperimentazione, i generi, gli strumenti e i campi coinvolti nella musica contemporanea sono veramente tantissimi. Molta della musica nata nel secolo scorso ha riproposto alla critica riflessioni sulla fruizione musicale, sui nuovi linguaggi, i temi, gli strumenti, riscrivendo i rapporti fra musica e persona, fra musicista e strumento, fra esecutore e pubblico. Di più, è cambiato proprio il modo di intendere la musica, il suo significato spirituale e sociale, la sua utilità nel mondo e, in certi casi, persino la sua stessa identità. Se infatti la musica classica e l’opera hanno saputo mantenere la tradizione e anche sperimentare nuove fusioni, dall’altro lato la musica contemporanea ha creato cambiamenti rapidissimi, disomogenei e fluidi, creando una quantità incredibile di generi e correnti in un tempo molto breve. Trasformazione che rispecchia molto bene il nostro tempo, incentrato sulle rivoluzioni tecnologiche (che avvengono a volte a distanza di pochi mesi) e anche sulla perdita di identità e idee. Anche la musica sembra soffrire di uno svuotamento di senso, dove l’atto artistico non sembra nascere (sempre più spesso, ma non nella sua totalità), da un reale processo creativo di chi scrive, suona o canta, ma dalla bramosia del successo facile e veloce, che invece di arricchire fruitori e creatori, li svuota portandoli a grandi disagi interiori (si pensi al triste “club dei 27”). Forse che la sconnessione da sé stessi porti questi artisti a non riconoscere quell’armonia, quella comunione col “divino” interiore, che tanto affascinava gli antichi? Dove è finito lo “Sturm und Drang” (trad. “Tempesta e Impeto”) che doveva portare l’uomo solitario in armonia col creato? Il sublime, del resto, è l’elemento dinamico che trasforma e sì talvolta annienta, ma che fondamentalmente serve a ricondurre all’equilibrio. O sono forse proprio loro, gli artisti che consideriamo “disagiati” quelli che più sono connessi al “genio” e per questo mal sopportano la realtà attuale che ci circonda? Nella Germania del XIX secolo, il concetto di genio rappresentava proprio colui che crea opere d’arte al di fuori di qualsiasi regola estrinseca, vivendo al di qua delle convenzioni sociali; quella inquietudine che non è mai sazia, il desiderio dell’impossibile, la ribellione morale (che vedrà poi il suo apice nei moti del ’68 del ‘900) contro la stasi della volontà e l’estremizzazione della razionalità e dell’intelligenza come “esseri supremi”.
“Dove sono attività, energia spirituale, azione, pensiero, sentimento, facoltà che non s’insegnano e non s’imparano, qui è il genio:…genio che non è appreso e non è acquisito, che non si apprenderà e non si acquisterà, nostra sola essenza umana, inimitabile, divina, ispirata. Il genio infiamma e crea: non mette ordine nelle cose, le crea!” (J. C. Lavater)

Classe 1984. Laurea triennale in filosofia politica e specialistica in teoria della comunicazione. La filosofia è come un videogame: si può giocare a diversi livelli di difficoltà.