La morte pt. 1

“La morte, il più atroce di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei, non ci siamo noi. Non è nulla, né per i vivi, né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non ci sono più”
(Epicuro, Lettere sulla felicità)
La morte. Il grande tabù dei nostri tempi, è lì ma non se ne può parlare troppo. E’ l’unica certezza della nostra vita eppure invece che aiutarci ad apprezzare appieno ciò che abbiamo, a vivere le nostre esistenze al massimo, ci spaventa, la temiamo e da sempre l’uomo cerca un modo per ritardarla il più possibile se non addirittura provare a vincerla. Le strutture sociali reagiscono alla morte attraverso una serie di mezzi mitici e rituali che inducono gli individui a vivere la morte secondo i paradigmi offerti dalla società (vi rimando per esempio ai Requiem di cui ha parlato il nostro Miguel). Se un gruppo intende la morte come evento innaturale, questo tende a individuarne la cause con i metodi divinatori propri delle singole culture. Conoscere il motivo della morte, infatti aiuta a riprendere controllo della situazione e a ristabilire un’ordine. In altre culture la morte non è vista come la fine dell’esistenza dell’individuo, il quale va a far parte di un mondo di- là.
Essendo la morte ritenuta un fenomeno estraneo all’originaria natura dell’uomo, sono numerosissimi i miti che spiegano in qual modo sia entrata la morte nel mondo mutando una condizione primordiale di pienezza vitale. Tale mutamento a volte dipende dal peccato, altre dalla violazione di un tabù posto all’origine. Nel miti si tende ad accertar non tanto il perché dell’origine della morte in rapporto alla colpa umana, quanto il come e il quando la morte fu introdotta.
Nel modello mitico la morte assume il valore di un passaggio che assicura una continuità di esistenza in un’altra vita. Tale condizione può essere il ricostruirsi dell’integrità e della perfezione originaria, nella quale l’uomo godeva dell’immortalità come del suo stato naturale; oppure può consistere nel passaggio a una nuova esistenza, più o meno corrispondente a quella terrena, di cui diventa la prosecuzione all’infinito.
La filosofia su tale tema è scissa in due: da un lato ci sono coloro che la ritengono un tema centrale (Platone, Agostino, Nietzsche, Heidegger etc.) e chi invece la relega in un ruolo marginale (Aristotele, Cartesio, Kant, Hegel) considerandola un mero fatto biologico contingente e naturale…insomma roba de poca sostanza che gli analitici nun c’hanno tempo da perde. Mentre per i primi è tutta ‘na roba esistenziale e quindi de ben più peso.
Se partiamo dalla citazione iniziale vediamo che tale assunto, che a un primo occhio sembra semplice, in realtà non è applicabile. Perché? Ci viene in aiuto Tolstoj che aveva una posizione molto originale al riguardo della morte. Per lui, più che un fatto reale era un pensiero. Mi spiego meglio. La morte per l’autore russo iniziava nel pensiero, nella paura che prima o poi arriverà. Di fatto quando poi la morte diventerà realtà, il problema non esisterà più. Quindi per zio Lev, la morte esiste nel pensiero, ovvero è un problema che ci facciamo quando siamo vivi. La soluzione sembrerebbe un semplice: non pensarci. Eh, pare facile! Equivarrebbe a smettere di pensare, soprattutto avendo ben presente l’esempio per cui se vi dico di non pensare a un elefante rosa, la prima immagine che vi viene in mente è proprio un elefante rosa (sono adorabili vero?). Il nostro pensiero non registra la negazione.
Nel Medioevo il dibattito sulla morte entra nel vivo, grazie ovviamente al fiorire della filosofia cristiana che ci dice: la morte è un problema del corpo, mentre l’Anima che è la parte più importante è immortale. La morte diventa così la sfida dell’uomo alla materialità, la fede nella resurrezione che trasmette un senso di continuità anche dopo la fine. Nel mondo Occidentale moderno, il senso generale della vita invece è proiettato in avanti, verso un punto che va oltre noi e che non può mai veramente essere raggiunto, perché se ciò accadesse rivelerebbe il suo non senso. Ciò mostra il nichilismo occidentale. Ma c’è anche un altro aspetto da non sottovalutare che riguarda la contraddizione tra finitezza ed eternità. Perché se è vero che l’Anima è immortale e la morte un fatto ci cui a malapena ci accorgiamo, che senso ha vivere? Che senso ha far tutto ciò che facciamo se passeremo più tempo nell’aldilà che sulla Terra? Ecco che la morte diviene quindi un tabù, soprattutto in occidente, dova la concezione finalistica della vita va per la maggiore. Tale visione porta, come abbiamo visto, al nichilismo che si è risvegliato del tutto quando abbiamo visto crollare una visione esclusivamente religiosa della vita. Quando “Dio è morto”, il mondo si è secolarizzato e si è imposto il materialismo metafisico. Come si scontra questa idea con la concezione del tempo? Che riflessione stiamo facendo di questi tempi attorno alla morte?
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Classe 1984. Laurea triennale in filosofia politica e specialistica in teoria della comunicazione. La filosofia è come un videogame: si può giocare a diversi livelli di difficoltà.