La morte pt. 2

“Se prendo la morte nella mia vita, la riconosco, e l’affronto a viso aperto, mi libererà dall’angoscia della morte e dalla meschinità della vita – e solo allora sarò libero di diventare me stesso” (Martin Heidegger)
Prima di iniziare a parlare della morte al giorno d’oggi, bisogna fare un passo indietro e analizzare l’idea di tempo. Pensare che la categoria di tempo e spazio sia uguale in tutte le culture è estremamente “europacentrico”. Il tempo, con buona pace di Kant, non è per tutti inteso allo stesso modo, soprattutto dopo la scoperta della fisica quantistica che, sempre di più pare confermare concetti e idee che nelle varie correnti del buddismo si sanno da diversi secoli.
Le concezioni del tempo più conosciute sono quella circolare e quella lineare. La prima, rappresentata come una ruota, in cui tutti gli avvenimenti si ripetono in un incessante circolo o, per dirla alla Nietzsche “in un eterno ritorno dell’uguale”
«Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!» (La gaia scienza)
Tale concezione anticamente era la più in voga, ed è rimasta nelle filosofie e religioni orientali (induismo e buddismo in primis) con il concetto della reincarnazione (o metempsicosi). Difatti l’alternarsi delle stagioni è un ciclo, così come la suddivisione della storia lo è.
La concezione lineare invece è rappresentata da una freccia che inesorabilmente corre verso il futuro, immagine tipica della religione ebraica e cristiana. Dio ha creato il mondo che corre, inevitabilmente verso la sua fine; così come la nostra vita: nasciamo, cresciamo e ogni giorno ci porta in direzione della fine. L’idea di “progresso” nasce proprio da tale concezione, che la natura umana abbia una meta da raggiungere e per la quale ciò che verrà sarà meglio di ciò che è stato (concezione teleologica).
I cicli esistono anche all’interno di una concezione lineare: il ritornare delle mode, le festività che ciclicamente tornano anche nelle religioni, i genitori che lasciano il proprio posto ai figli e così via. Ma sicuramente una concezione è predominante sull’altra.
Una retta può essere pensata come una circonferenza a raggio infinito. Per farvi un esempio: sappiamo che la Terra è tonda ma nella vita di tutti i giorni non riusciamo a percepirne la curvatura.
Come influenzano però queste due concezione sulla morte, la vita e l’idea di vita dopo la morte?
La morte è un puro fatto, come la nascita; essa viene a noi dall’esterno e ci trasforma in esteriorità. In fondo, essa non si distingue in alcun modo dalla nascita ed è l’identità della nascita e della morte che noi chiamiamo fatticità”. Quindi la morte ci è estranea, viene dall’esteriorità, un’esteriorità che non possiamo vedere, conoscere, proprio perché è altra da noi e definisce i nostri confini. Ad essa dobbiamo rassegnarci e nemmeno provare a definirla perché – per riallacciarci a Wittgenstein – “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Ma è veramente così? E’ giusto che si parli di morte solo in maniera irrazionale, di pancia e solo quando accadono sciagure? Il periodo storico che stiamo vivendo, causato dal Covid19, dovrebbe aprire la strada a una attenta e pacata riflessione su quello che significa la morte.
Neppure nel mondo religioso, infatti, riusciamo a trovare qualcosa che ci prepari ad affrontarla. C’è la preparazione al battesimo, al matrimonio, ma non un percorso di consapevolezza verso la morte. Forse un tempo nella società passata era vissuta come un rito collettivo, di passaggio a cui tutti, prima o poi dovevano sottostare. Ma adesso, rinchiusi nel nostro individualismo, è qualcosa che viviamo per conto nostro, circondati soltanto da pochi cari, e questo, forse ci rende ancora più incapaci di accogliere il passaggio finale. Non c’è più spazio e tempo per una reale elaborazione della perdita. Tre giorni sono concessi dal lavoro per un lutto vicino (e deve essere un parente altrimenti neanche quelli), poi si deve tornare a produrre. Quante persone che non riesco ad elaborare la perdita di una persona amata, finisco per vivere a metà? Quante non riescono a lasciare andare chi se n’è andato?
E’ possibile rivedere il rapporto che abbiamo con la morte? Ripensare all’intero sistema sociale che, per molte persone, è basato sulla sua completa rimozione dai dibattiti?
Può esserci una preparazione alla morte? E se sì, questa deve essere condotta da una personalità esterna o siamo noi che dobbiamo preparare noi stessi all’inevitabile? L’idea di accettare che faccia parte della nostra esistenza, non deve portarci all’immobilismo, ma farci apprezzare di più quello che abbiamo e la pienezza della vita. Che non va tradotto nel fin troppo abusato “Carpe diem” o nel “chi vuole esser lieto sia che del doman non v’è certezza”, ma in una consapevolezza che sì è vero che domani si potrebbe morire, ma non per questo si debba esistere all’ombra di un qualcosa che fa parte della vita stessa. Non è chiudendo gli occhi e diventando sempre di più dei contemporanei “Frankestein”, che potremo pensare di coltivare una esistenza profonda e piena. Perché la paura della morte è una lenta agonia che non ci permette di godere appieno della vita, che ci fa ammalare e sentire insignificanti. Alla luce di ciò che sta succedendo da un anno a questa parte, un dibattito sulla morte è necessario e fortemente richiesto, non solo da medici e psicologi ma da tutta la comunità di filosofi, sociologi e antropologi.
“Non devo avere paura. La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale. Guarderò in faccia la mia paura. Permetterò che mi calpesti e mi attraversi. E quando sarà passata, aprirò il mio occhio interiore e ne scruterò il percorso. Là dove andrà la paura non ci sarà più nulla. Soltanto io ci sarò.” (F. Herbert- Dune)

Classe 1984. Laurea triennale in filosofia politica e specialistica in teoria della comunicazione. La filosofia è come un videogame: si può giocare a diversi livelli di difficoltà.